28 maggio 2013

Di tutti i messaggi ricevuti...


Di tutti i messaggi ricevuti dopo la pubblicazione di

ne ho selezionati alcuni per quello che dicono o per come lo dicono. 

A scrivere sono un ex-Preside (1), un titolare di pizza al taglio di Roma (2), una fotografa free-lance (3).

1)  "... grazie di questa bella testimonianza, un vivace curricolo che non potevo nemmeno immaginare quando ero a scuola. C'è un aspetto che mi colpisce e che si lega alle riflessioni cha vado facendo sul problema dei giovani e sulla mancanza di lavoro. Qui lo dico e qui lo nego ma sono sempre più convinto che questa generazione non riesce ad inserirsi perché non ne ha voglia, perché è priva di desideri e di fantasie ed è affetta dalla sindrome del pensionato, di cui comincio a sapere molto. L'idea che tutto è dovuto e che rischio, fatica, determinazione, tenacia, ambizione, fantasia, progetto sono state soppiantate dalla delusione, dal rancore, dal rimpianto, dall'invidia, dall'aggressività. La tua vita dimostra che se si desidera una cosa e si è disposti a pagare un prezzo prima o poi la si ottiene." 

2) "... trovo assurdo che giovani come me non  siano  soddisfatti del tenore di  vita condotto, abbiano enorme rabbia di un paese ormai assurdo con leggi retrograde  e soprattutto non rispettate ed interpretabili,  senza regole e pene certe, in balia di  chiunque alzi la voce e conti, con tasse da collasso e burocrazia da terzo mondo, sempre più criminale e senza giovani qualificati perchè  chi merita ormai va altrove come è giusto che sia, io come loro non mi sento gratificato, lavoro circa 15-16 ore al giorno con punte anche di 18 in alcuni fine settimana... ma per ottenere cosa??? Sì, riesco a non far mancare niente a casa ma solo perchè  lavoro tanto, se facessi  un turno normale avrei enorme difficoltà come tutti... Il mutuo ormai non lo erogano più, la  speculazione immobiliare ha impoverito tutti o "quasi", corri corri e sembra sempre di essere ancora all'inizio, senza prospettive per noi e per I figli , incassi tanto perchè sei bravo e poi te li ritorgono (testuale n.d.r) tutti, sì sono molto deluso e provo molta rabbia verso  questo paese e chi lo governa da anni ..."


3) "... ho letto la veloce intervista su voglio vivere così.
mi piace la tua capacità di vivere "nel momento", di fermarti perchè la donna al tuo fianco ha un lavoro stanziale.
mi sembra il cuore del viaggio, il significato più grande..."

Ho ricevuto altre lettere simili alla numero 1. Lettere di ammirazione, di complimenti, ma quella che ho riportato quasi integralmente mette l'accento su un aspetto spesso trascurato della crisi: l'abulia e l'assenza di idee di molti giovani, la difficoltà che hanno a comporre progetti, l'incapacità di capire che qualsiasi obiettivo ha il prezzo di moltissimi sacrifici.

Le lettere ricevute più numerose sono simili alla numero 2. Lettere arrabbiate, di giovani delusi da un'Italia che facilita spesso i disonesti e non aiuta quasi mai chi lavora e paga le tasse. Lettere che lamentano una burocrazia vessatoria e ingiusta, l'incertezza delle leggi e il fatto che non si può mai contare, anche solo il giorno dopo, sulla norma che è in vigore oggi. Lettere scritte da italiani che lavorano tanto, ricchi di talento e grande volontà, di italiani che vogliono partire e andare via dall'Italia e aggiungersi alla diaspora degli italiani già emigrati.

Altre lettere sono come la 3. All'incredulità che io esisto per davvero si aggiunge la sorpresa per il fatto che, alla fine del viaggio, è l'amore che conta e dà passione e significato al "viaggio". 
Oppure, chiede un'altra lettera: "qual è, secondo te, il miglior posto per vivere?" 

Domanda impossibile alla quale non risponderò mai.

Se volete rileggere l'articolo "Una vita in giro per il mondo" da oggi lo trovate anche su:


all'indirizzo:

Un caro saluto.
P.



Una vita in giro per il mondo.


Quando ero adolescente e guardavo il mappamondo rimanevo colpito dalla piccolezza dell'Italia rispetto alla grandezza del pianeta. 

Sognavo di viaggiare in tutto il mondo. Ero un appassionato di letteratura di viaggio, guardavo in continuazione l'atlante geografico, cosa che non ho mai smesso di fare, e nella seconda metà degli anni 70 iniziai a partire.


Prima nel Mediterraneo, in Grecia, destinazione obbligatoria per l'insuperata bellezza dei suoi luoghi storici; poi, dopo la laurea, in India e in Tibet: non dimenticherò mai i monaci dei monasteri buddisti in Ladakh, Nepal, Bhutan e Cina, a volte visitati dopo lunghi percorsi a piedi su sentieri deserti e pietrosi, ad altitudini tra i 4.000 e i 5.000 metri. Nei monasteri più remoti i monaci volevano provare i miei occhiali, alcuni volevano comprarli e tutti mi offrivano il delizioso thè caldo col burro di yak e il sale.

Nel frattempo ero diventato un professore, anche se precario. Nel 1981 venni a conoscenza che l'Ente Nazionale Idrocarburi cercava insegnanti di italiano per le scuole frequentate dai figli degli italiani all'estero. Feci domanda. Un anno dopo il responsabile del settore Scuole dell'ENI, mi chiamava al telefono e mi offriva di andare a lavorare nella Scuola italiana di Al-Khobar, in Arabia Saudita, sul Golfo Persico. Se non avessi deciso entro 20 minuti, mi disse, sarebbe andato avanti nella lista. Mi ci faccia pensare un attimo, dissi, ma lo feci solo per darmi un tono: avevo già deciso, subito. Non ebbi alcun dubbio anche se gli amici mi dicevano che ero matto.

Una settimana dopo atterravo a Dharhan Airport accolto gentilmente dal Commercial Manager della Saipem, che, a giudicare dalle premure, non sembrava molto sicuro della mia capacità di sopravvivere in un luogo così strano e disagiato. Due anni in Arabia Saudita costituirono un'esperienza atipica: se passavi il semaforo col rosso andavi in carcere tre giorni, col giallo facevi un giorno di galera. Vivevo nel deserto in un container, se il generatore del campo si rompeva e non c'era l'aria condizionata la temperatura interna del container arrivava a 65 gradi e non potevo rientrare in casa, se si può definire casa un alloggio singolo con un angolo cottura e un bagno. In poco tempo avevo imparato tutte le regole di una rigida e severa società islamica. Dirigevo la scuola, insegnavo, mi occupavo della logistica e della relazione non solo col nostro Ministero degli Affari Esteri, ma anche con l'Ispettorato dell'Istruzione Saudita al quale, come capo d'istituto, dovevo riferire. Il secondo anno, mi occupai anche del trasloco della scuola ad una nuova sede e non mi vergognai di salire sui camion con gli operai per trasportare l'intera scuola da un posto all'altro. Imparai a lavorare ogni giorno a stretto contatto non solo con le colleghe europee, ma anche con gli arabi, a conoscere la loro rigidità, ma anche la loro capacità di apprezzare la schiettezza di uno straniero come me.

Dopo due anni in Arabia Saudita tornai in Italia, un anno in un Liceo di Roma, e quindi mi proposero un nuovo contratto in Nigeria. Da tempo avevo conseguito l'abilitazione all'insegnamento di Storia e Filosofia nei Licei e fui incaricato di insegnare al Liceo Italiano di Lagos in Nigeria. Altri due anni di impegno e di conoscenza di un'area, l'Africa occidentale, che si rivelò estremamente interessante. Sull'Africa esistono storie false, stereotipi e stupidaggini. Dall'esperienza diretta mi appariva una realtà diversa: una società vivace, interessante, disagiata, complicata, decisamente affascinante.

Rientravo a Roma, vincevo il concorso per l'immissione in ruolo e dopo pochi anni, finalmente, veniva bandito il primo concorso con prove scritte e orali per insegnare all'estero. Lo vincevo, quarto su più di 300, ed ero destinato al Cairo: tre anni in Egitto. Insegnavo in una scuola famosa, il Don Bosco, retto dai Salesiani, a Rod El Farag, Shoubra, un quartiere poverissimo a forte presenza cristiana. Lì, durante un viaggio fuori pista nel deserto del Sinai, mi innamoravo di una ragazza italiana che sarebbe diventata mia moglie. Ci sposammo subito. 
Appena tornati al Cairo scoppiava l'insorgenza radicale islamica: la notte sentivamo il mitragliare cupo e continuo che proveniva dai quartieri poveri della città, i rastrellamenti che la polizia egiziana conduceva, casa per casa, per trovare i responsabili degli attentati che insanguinavano l'Egitto di allora. 
Mi ricordo la simpatia dei miei studenti, la bellezza struggente del Ramadam nelle strade al tramonto durante la preghiera, la febbrile eccitazione dei pasti festosi alla notte, lo sfavillio delle luci notturne nelle botteghe fino all'alba.

Venivo trasferito ad Addis Abeba, Etiopia: l'esperienza professionale ed umana più incredibile della mia vita. La scuola Italiana di Addis Abeba, gli studenti con le loro famiglie e i colleghi, hanno rappresentato una splendida epoca della mia vita. Poi, dopo qualche anno, superavo anche il concorso per l'insegnamento nelle Università straniere: undicesimo su duemila. E poi, in Etiopia, io e mia moglie incontravamo la bambina che sarebbe diventata nostra figlia. 9 anni di lavoro in Etiopia, il gruppo di teatro, il cinema curato per conto dell'istituto di Cultura. 
La dolorosa guerra tra Eritrea ed Etiopia: i lutti, le partenze e le deportazioni. 
Gli scontri in città con morti e feriti.

E poi le esigenze della famiglia che mi hanno distolto dalla carriera e mi hanno portato a seguire il lavoro di mia moglie. 
E quindi, dopo 9 anni meravigliosi ad Addis Abeba, con le lacrime agli occhi per l'emozione dell'addio, 4 anni splendidi a L'Avana, Cuba. L'insegnamento alla Dante Alighieri, all'Università di L'Avana, i cicli di cinema italiano e di storia d'Italia nei Musei e nel Dipartimento di Lingua italiana dell'Università. E poi due anni a Roma. E poi 4 anni a Nairobi, in Kenya. Gli studi di linguistica e di storia e la casa sempre piena di libri.
Il tempo passa, ma la voglia di mettermi in gioco e, ogni volta, di ricominciare una nuova avventura non mi è mai passata. Non è facile traslocare da un continente all'altro: non parlo solo di container e spedizioni, di case da smontare e rimontare, di dogane difficili o impossibili, di guida a destra o a sinistra, di lingue straniere, di usanze e burocrazie incomprensibili, di notti perdute in attesa di coincidenze in aeroporti deprimenti, di leggi complicate, di case che non si trovano, di problemi di salute o di sicurezza, di guerre che ti scoppiano sotto casa senza che te le vai a cercare. Parlo di un possibile e acuto senso di spaesamento che può colpire quando si parte per una destinazione lontana: è faticoso costruire una nuova condizione di vita se non si hanno le idee chiarissime su ciò che si vuole. Ho visto tante coppie e famiglie sfaldarsi alle prime difficoltà all'estero, tanti colleghi rinunciare all'incarico, tanti mariti travolti da avventure esotiche e capaci di abbandonare mogli con bambini piccolissimi.

In giro per il mondo, in Brasile, a Cuba, in Kenya, in Thailandia, a Santo Domingo, c'è turismo sessuale e ci sono molti italiani che vivono dopo aver abbandonato mogli e figli in Italia. Non sono la maggioranza. Ci sono migliaia di italiani che all'estero hanno trovato posto per le loro famiglie, svolgono lavori importanti, costruiscono grandi successi professionali. Tanti hanno acquisito uno sguardo nuovo, più profondo e complesso, per guardare alle cose del mondo.
Certo, a forza di viaggiare, con l'esperienza si perde anche l'ingenuità dello sguardo. Per me, spesso, un mercato pittoresco può apparire come un mercato misero e brutto. Dopo 40 anni di viaggi a volte non riesco più ad entusiasmarmi per cose che fanno la felicità dei turisti comuni: fuggo la foto davanti a un piatto esotico in un ristorante particolare, il souvenir del monumento nazionale più famoso, la foto dell'indigeno tribale in posa per una moneta.

Quando si è stranieri si rispettano le leggi e le usanze del paese che ci ospita, sempre, e questo porta anche stanchezza ed esaurimento, ma regala nuove consapevolezze, emozioni, ricordi indimenticabili e una maggiore, molto più complessa e raffinata, capacità di lettura dell'intero universo umano.
Dal gennaio 2010 ho aperto il blog Italy & World:



il blog vuole essere un piccolo contributo alla riflessione sull'Italia, ma con uno sguardo agli orizzonti del mondo e qualche riferimento speciale all'Africa. L'Italia, con tutte le sue virtù e bellezze, è sempre rimasta nel mio cuore, ma spesso, vista l'incapacità di cambiare i suoi numerosi vizi, ha nutrito anche la mia voglia di ripartire.


Vi ho accennato alle mie motivazioni di partenza, ad una vita spesa a diffondere la lingua italiana e a promuovere la cultura italiana, a una passione di conoscenza per il mondo che dura da quarant'anni.
Chi volesse approfondire gli aspetti che hanno caratterizzato le singole esperienze di vita in Arabia Saudita, Nigeria, Egitto, Etiopia, Cuba, Kenya, può scrivermi al seguente indirizzo: paologls@yahoo.it oppure scrivere sul mio blog Italy & World:

Un caro saluto. 
Paolo Giunta La Spada

Questo post è stato pubblicato sul sito "Voglio vivere così" in data 22 maggio 2013.



13 maggio 2013

NERO è bello!

Lingua italiana e razzismo: un uomo "di colore"?
L'espressione linguistica nel nostro Paese mostra l'impreparazione degli italiani a parlare degli "altri". 



Cari italiani, 
so che molti di voi pensano che definire una persona d'origine africana con l'espressione "di colore" sia cortese, che "di colore" sia una espressione gentile. 
Ma se un uomo è di colore l’altro come è: senza colore? In realtà siamo tutti colorati: beige, bianchi, rosa, gialli, marroni? 
Perchè allora solo i neri sono “di colore”? 
L’espressione “di colore”, spesso, è usata da persone bene educate. 
Non come gli ignoranti che dicono “'na negra”, “i negri”, “un negro”, con la g e la voce sgraziata del disprezzo, riferendosi a una signora nera, a dei signori neri o a un signore nero. 
Negro e negra sono aggettivi o sostantivi da non usare se si parla di persone: esprimono razzismo. Del resto sono parole apparentate con l’inglese nigger che è un insulto. 




Diversa e più complessa è la situazione della lingua spagnola dove negro significa sia il colore nero in generale che la persona nera. 

Ma torniamo al “di colore”. Da noi in Italia con questa espressione si crea una spartizione tra una presunta normalità e il “di colore”. 
In effetti se io, nero, vengo definito "di colore", potrei chiamare un bianco "senza colore". Ci sarebbero quindi i signori senza colore e i signori di colore: ridicolo; e improprio anche sul piano linguistico. 
Inoltre con l'espressione "di colore" si definisce una persona per il suo colore di pelle. Non per la sua identità nazionale. 
Ora, tutto questo poteva essere comprensibile nei secoli scorsi quando la storia dei diritti civili era ai suoi inizi e c’era lo schiavismo, cioè il commercio e la barbarie dello sfruttamento di altri esseri umani. 

Oggi dovremmo considerare una persona per la sua identità nazionale: un etiope è un etiope, che sia bianco o nero, un cinese è un cinese che sia giallo o bianco, un italiano è un italiano che sia bianco, olivastro, nero o rosso. 
E’ razzismo chiamare una persona facendo riferimento al colore della sua pelle o ad altra caratteristica fisica. 
Si dice spesso: ma si può accettare una deroga a questa regola quando l’espressione è vezzeggiativa, per esempio “negretta” riferito a una bambina? 
E che direste se dei neri chiamassero vostro figlio “bianchetto”? 

Attenzione, non voglio che il mondo passi dall’iniquità del razzismo agli steccati, spesso ottusi, del politically correct. 
So bene, per esempio, che in molti Paesi dell’America latina, in particolare nell’area caraibica e a Cuba dove a lungo ho vissuto, esistono altre parole, come mulata y mulato (mulatta e mulatto in italiano), come negro y blanco (nero e bianco in italiano) che vengono usate comunemente per chiamare e definire le persone. 
E’ il risultato di una storia drammatica fatta di schiavismo, oppressione e continuo riferimento alla pelle. 
E’ il prodotto storico di luoghi comuni che il tempo cancella con estrema lentezza in tutto il mondo, non solo da noi. 
E’ l’esito di un rapporto tra bianco e nero che può essere ancora coloniale come nel caso del turista europeo col mito della “mulatta” che va in paesi come Brasile e Cuba per praticare turismo sessuale. 

Se crediamo in un mondo diverso, basato sul diritto di ognuno ad essere rispettato dagli altri, abbiamo il dovere di condurre una riflessione sulla lingua che usiamo e su come definiamo l’altro che non siamo noi. 

Quindi basta, per favore, alle seguenti parole: negro, mulatto, di colore. 

Si può fare riferimento all’identità nazionale: somalo, angolano, congolese, inglese, sudafricano, tunisino, francese, eritreo. 

E, se per una qualche ragione, ci serve di definire la pelle (cosa che però si dovrebbe sempre evitare)  che si usi l’espressione “nero”: 
un signore nero, una bambina nera, una giovane nera, una signora nera.



Copyright Paolo Giunta La Spada per Italy & World


9 maggio 2013

Rubare all'Italia.


Silvio Berlusconi è stato condannato a 4 anni, tre dei quali coperti da indulto, e a cinque anni di interdizione dai pubblici uffici per una gigantesca e ripetuta frode di anni e anni e di milioni e milioni di Euro ai danni dello stato italiano. 

Lo ha stabilito la seconda Corte d'appello di Milano diretta dal magistrato Alessandra Galli. 

Berlusconi ha detto che i magistrati "sono comunisti". 
E' falso.
I magistrati non sono comunisti. 
I magistrati, quando non sono corrotti, applicano le leggi vigenti.
Chi ruba è ladro.
Il giudice Alessandra Galli non è comunista e potrebbe incriminare Berlusconi per calunnia. 

Il padre di Alessandra, Guido Galli, fu barbaramente assassinato da un nucleo armato di Prima linea il 19 marzo 1980 nell'Aula n. 309 dell'Università di Milano.
Aveva la sola colpa di fare il suo lavoro di giudice e le sue indagini avevano condotto all'arresto di Corrado Alunni. 
I terroristi lo colpirono da dietro, alla schiena, e poi lo finirono, quando era già a terra, con due colpi alla nuca.

Berlusconi porterà a manifestare migliaia di persone contro una magistratura che ha il solo difetto di difendere le leggi vigenti contro il crimine e contro le mafie.
Anche quelle mafie che si annidano in giacca e cravatta nei luoghi del potere e del consenso e che rubano miliardi e miliardi. 
Sono le mafie che rovinano l'Italia di oggi. 
Aiutate da giornalisti compiacenti e comprati, da politici corrotti e disonesti.

L'ha detto anche Papa Francesco: "chi non paga le tasse è un ladro".
E ruba all'Italia.
Cioè a noi tutti.


I&W

8 maggio 2013

Il trappolone...

"Berlusconi sostiene il governo Letta finché gli farà comodo, e cioè finché la sua popolarità anti Imu (e simili) non abbia raggiunto un livello di sicurezza a prova di bomba. Intanto la commissione per le riforme resterà impigliata nel dibattere le riforme costituzionali. E al momento giusto per lui, «Re Berlusconi» farà cadere il governo Letta, chiederà nuove elezioni che stravincerà da solo tornando a votare con il Porcellum . Il trappolone è perfetto." 


Sembra scritto da me, già autore de "La trappola" dello scorso gennaio 2012 sul blog Italy & World

http://paologls.blogspot.com/2012/01/la-trappola.html

quando nessuno credeva a ciò che dicevo e che poi si è realizzato grazie a un Pd incerto e diviso e ad un M5S velleitario e chiacchierone.
Invece è Giovanni Sartori sul Corriere della Sera di oggi 8 maggio che scrive esattamente quello che penso io.


E io aggiungo che tra i due litiganti (M5S e PD)... il terzo (Berlusconi) gode.

E l'Italia affonda.

Aspettarsi un "colpo d'ala" dal governo Letta è l'ennesima illusione condita da una discreta dose di cattiva coscienza...




© RIPRODUZIONE RISERVATA Paolo Giunta La Spada




4 maggio 2013

La scuola italiana.


Della scuola nessuno parla. O meglio in tanti recitano formule magiche di "ammodernamento, riforma e rilancio", ma tutti mentono sulle reali condizioni della scuola. 

Qualche anno fa, al ritorno in Italia, fui assegnato ad un istituto alberghiero di Trastevere a Roma. Il mio primo shock fu vedere le aule e i banchi graffitati, sporchi e disegnati di falli, vagine, svastiche, falci e martello, insulti, bestemmie, forza Roma e forza Lazio, inviti porno e richiami  a improbabili crisi esistenziali. 
Non c'era un angolo pulito: tutto pieno, dal battiscopa fin quasi al soffitto. 
II secondo trauma fu verificare che i colleghi, gli studenti e i genitori facevano come se niente fosse stato: assuefatti al degrado. 
Il terzo fu che la Preside mi disse che la Provincia non puliva le aule da molti anni e non aveva soldi per farlo. Normale. Chiesi se potevo farlo io, a mie spese, magari con l'aiuto di qualche studente. Mi rispose: "non si azzardi a prendere iniziative senza il mio permesso, c'è il problema dell'assicurazione, se si ficca la vernice in un occhio io non ne rispondo, e a maggior ragione non parli di coinvolgere i ragazzi." 
Questo è solo un esempio di come la scuola si degrada perchè non ci sono soldi, ma anche a causa di divieti, burocrazie, verticismi.

Un anno dopo ci crollarono in testa i soffitti del corridoio davanti all'aula dei professori, fu un miracolo che non c'era nessuno: tutti in classe all'ora del crollo.
Naturalmente i lavori, con tutti i disagi e i rumori, si protrassero per mesi e mesi. 

Fare lezione ai ragazzi d'oggi è difficile, e presuppone già, anche in condizioni normali, un'analisi attenta della situazione e degli stili di apprendimento, delle possibilità comunicative, dei registri linguistici da adottare, dei contenuti da trasmettere, degli obiettivi da conseguire, del feedback da verificare, del piacere dell'apprendimento da produrre o consolidare: ci vuole senso del dovere, professionalità, preparazione, talento, simpatia, cura dei dettagli dal primo all'ultimo minuto. 

Fare lezione in un ambiente molto degradato, sporco, senza dignità, brutto, con le pareti luride e piene di scritte volgari, può diventare, come spesso diventa per molti docenti, un atto di eroismo. 
E' difficilissimo far credere agli studenti e alle loro famiglie che la scuola è importante se le aule cadono a pezzi e mentre parli, dietro di te, ci sono parolacce, falli multiformi, svastiche, W il Duce e bestemmie.
Al degrado ci si abitua e la scuola è una cartina di tornasole per capire come è cambiata la società italiana negli ultimi 20 anni.
Mediocrità, faciloneria, voglia di soldi facili, tendenza a strillare e non a ragionare, gravi vuoti di buona educazione.
Se, quando entrano a scuola, alcuni ragazzi bestemmiano e nessuno dice niente, se bestemmia anche il bidello e nessuno fa nulla, ci si sente sempre più impotenti a lottare ogni giorno in una condizione svantaggiata e contro troppi nemici.
Pochissimi mezzi, zero soldi, ambienti degradati e più simili a un carcere che a una scuola superiore, regole e burocrazia, divieti e lungaggini, un'utenza di periferia border-line  che tende a usare le strutture della scuola come fossero una curva di uno stadio da distruggere.
Un'atmosfera che a volte assomiglia a tutto meno che a un luogo di formazione umana e professionale.
Molti insegnanti si sentono soli e "crollano", fanno ciò che possono, cioè poco.
Su questo tipo di scuola, tristemente compiaciuta della sua follia, c'è una letteratura anche troppo fiorente, da Starnone a Lodoli.

E poi trovi gli insegnanti che ci credono. Un buon numero.
Presuntuosi a volte, umili più spesso, capaci di prendersi carico di tutte le carenze strutturali e organizzative. 
Preparati, bravi, coinvolgenti. 
Ostinati come si deve essere quando si è davanti a missioni impossibili.
Silenziosi e capaci.
Quando ci sono loro, le scuole funzionano, funzionano bene, e se c'è un settore pubblico che ha "retto" in Italia è la scuola.
Molte scuole superiori in Italia sono eccellenti.

Ma la scuola italiana rischia la crisi definitiva se non si cambia politica.
La scuola non ha bisogno di tagli, ha bisogno essere forte, competitiva, ben finanziata, con docenti attentamente selezionati, controllati e, aspetto centrale, ben pagati.
E' semplice: se i docenti non sono ben pagati i migliori se ne vanno appena possono.

Controllati: quante volte ci è capitato di non vedere mai un docente ai Consigli, e nessuno dice niente?
Quante volte ci è capitato di vedere lo stesso docente fare cose folli, o arrivare sempre in ritardo, e nessuno dice niente?

E si è mai parlato dei diversi carichi di lavoro che comporta insegnare una materia o l'altra? 
Argomento tabù. Avete presente di che cosa parlo?
Da ragazzo sono cresciuto in un liceo in cui le lezioni di educazione fisica erano solo partite di pallacanestro. Nient'altro.
Provate, invece, a portarvi a casa ogni fine settimana duecento temi di italiano da leggere: cercate di capirli, fate una correzione propositiva e non risolutiva, valutateli, scrivete un giudizio che significhi qualcosa di importante per l'allievo che legge, e poi mi raccontate come avete passato il sabato e la domenica.
Ma lo so, cari colleghi, di queste cose non si può parlare, siamo tutti uguali e l'hanno detto anche i sindacati: amen.
Ma e' anche di questa incapacità a "mettersi in gioco" che la scuola muore.

La scuola ha problemi gravi e la politica fa finta di niente.
Porgo i miei migliori auguri di buon lavoro al neo-ministro dell'Istruzione, ma ho il dubbio che sia l'ennesima nomina di uno studioso del tutto estraneo al mondo della scuola.
Mi piacerebbe che un ministro ci venisse a trovare un giorno qualsiasi, imparasse a staccare le decine di gomme da masticare sotto le sedie, pulisse le caccole appiccicate al registro, visitasse un bagno per le studentesse e ne verificasse le condizioni igieniche, trovasse ogni giorno insieme a noi le sedie che non ci sono mai, cercasse di fare 3 fotocopie per uno studente senza essere accusato di aver commesso un reato, visitasse palestre, attrezzature e laboratori, lavorasse con noi in quella specie di affollato sgabuzzino 3 metri per 4 che in ogni scuola chiamano aula professori e che dovrebbe ospitare 100 docenti, facesse un'oretta di lezione davanti ad una parete piena di "cazzi" e bestemmie, aspettasse a lezione finita quei due minuti che separano gli studenti dall'uscita di fine giornata, e allora, solo allora, si recasse in Consiglio dei Ministri a parlare di scuola.

Nell'agenda di governo, qualsiasi governo di oggi e del futuro, la scuola deve essere al primo posto.
Se vogliamo bene all'Italia dobbiamo voler bene alla sua scuola pubblica. 
L'Italia vuole una scuola forte, competitiva, ben finanziata.
Senza una scuola forte non c'è crescita, non c'è sviluppo, non c'è futuro.

Paolo Giunta La Spada

1 maggio 2013

Sono 400.000

In Italia 400.000 persone, quasi tutti giovani e in gran parte ragazze, lavorano nei call center. Telefonano, prendono appuntamenti, chiedono ascolto, pubblicizzano.
Sono un esercito di precari, di assunti in nero, senza alcuna prospettiva di inquadramento, sono vittime di una società che dà poca formazione educativa e professionale e che sfrutta senza pietà tutti quelli che non hanno avuto la fortuna di studiare, di formarsi una cultura, di costruire un progetto.
Sono vittime e colpiscono altre vittime, spesso pensionati e anziani che, contenti di ricevere una visita e sfuggire per un attimo alla propria solitudine, accettano appuntamenti e firmano contratti onerosi, o comprano merci che non servono a nessuno.
E' una delle tante facce del "sommerso" in Italia, cioè del mondo di chi sfrutta e non paga tasse allo stato facendo così indebita concorrenza alle aziende sane che pagano il loro contributo alla società.
Come i raccoglitori di pomodoro nigeriani delle campagne pugliesi o come i lavapiatti cingalesi dei ristoranti romani le ragazze dei call center sono sfruttate, subiscono le avances del capo, vengono pagate poco, in ritardo e male.
Lo stipendio medio è 700 Euro.
Ma sono italiane perchè devono saper parlare italiano per convincere i pensionati e le anziane signore che vivono sole.
Ricordate il bel film di Virzì "Tutta la vita davanti?"



Quando ci sarà un governo che abbasserà le tasse alle aziende sane e annienterà i traffici delle aziende che prosperano sullo sfruttamento dei giovani?