28 ottobre 2010

Isola di Lamu, Kenya.


L’atterraggio sulla pista di Lamu è un po’ ruvido. Il piccolo bimotore ad elica da 36 posti frena fragorosamente e prende un po’ di inclinazione. L’aeroporto: una casetta di legno e una tettoia per il sole. C’è una stanza-moschea per le preghiere. Un bar con gli infissi scrostati serve su un unico tavolo poche bevande prese da una ghiacciaia posata per terra. All’arrivo qualche facchino, alcune donne velate, uomini d’affari indiani in consunti abiti grigi, una coppia di distinte signore europee e due ragazze keniane con cappello di paglia. Ci aspetta il giovane Abdul, le tre valigie vengono spinte su una carretta fino al molo. Mi aspettavo più caldo, invece una piacevole brezza spira dal mare. Una vecchia imbarcazione ci porta a Shela in meno di mezz’ora. L’arcipelago di Lamu è composto da tre isole principali, Lamu, Pate e Manda, più un mucchio di isolotti minori. A Lamu non ci sono automobili o altri mezzi motorizzati. Si va a piedi, con le barche o con gli asini. La città, nel 2001, è stata dichiarata dall’UNESCO patrimonio dell’umanità e appare come il più antico borgo di architettura Swahili dell’East Africa. Qui, molte case sono costruite in pietra di corallo e legno di mangrovia e nascondono al proprio interno cortili lussureggianti e giardini fioriti. Le porte e i balconi d’epoca sono scolpiti e decorati. L’aspetto generale è quello di un animato villaggio, per metà arabo e per metà africano, in riva al mare. Arriviamo per la visita al mattino presto, la giornata è bella, la folla al molo invadente e variopinta. La rada è piena di dhow, le antiche imbarcazioni arabe a vela, vecchi caicchi con la caratteristica prua dipinta con scritte colorate. Dal molo alla piazza sono pochi passi, lo sportello dell’Immigration Office di tanti anni fa, il vecchio forte dipinto di giallo ocra. La scena pare una cartolina sbiadita degli anni trenta: i vecchi intunicati di bianco chiacchierano all’ombra di due alberi secolari, il fez sul capo. Giovani scamiciati spingono cigolanti carrette cariche di mercanzia: taniche di plastica o di latta, bombole di gas, legna, tubi di ferro. Strilla il venditore di giornali. Passa qualche vecchia bicicletta trillante di campanello, alcuni ragazzi reclamizzano con cantilene le proprie merci nelle ceste: rossi manghi, verdi lime, banane, piccoli dolci smielati, aglio, cipolle, samosa fritti. Gli asini trottano a gruppi, trasportano ogni genere di merce, dalle pietre per le costruzioni al pesce fresco. Rendono faticoso il passaggio nei vicoli più stretti. Molte donne sono velate di nero anche sugli occhi. Si sente il loro profumo forte da bigiotteria. Altre s’abbigliano all’africana con i colori del proprio clan. Alcune vestono all’occidentale, ma con stile sobrio. Il mixer tra cultura Bantu, Araba, Persiana, Indiana ed Europea è evidente. 37 moschee, una chiesa cattolica, qualche tempio protestante. I colori dei buganvillea sono rosa cupo, lilla, bianco, giallo arancio. Gran parte delle strade sono di sabbia, senza pavimento. C’è odore di sporco, folate di panni lavati stesi al sole, spezie, pesce fritto, coriandolo, cumino, aria di porto che ristagna, sabbia umida. La periferia dell’abitato è percorsa dai canali di scolo delle case, le condizioni generali sono di sporcizia, ovunque c’è penuria d’acqua e l’anno scorso, con la stagione secca, ci sono stati diversi casi di colera.

Nel pomeriggio il nostro dhow fila a vele spiegate nella laguna, verso la costa est di Manda e Lamu dove l’oceano è aperto e si raggiunge la barriera corallina. Prima della sera navighiamo nei canali di mangrovie, il vento è cessato, la barca è quasi ferma nel silenzio.
Per tornare a Shela riprendiamo il mare aperto e la vela si gonfia del vento forte e degli abbagli del sole che tramonta. Tocchiamo terra col cielo ancora pallido. E’ l’ora della preghiera. Sulla spiaggia si snoda la coda degli uomini che vanno a pregare; gli ultimi pescatori s’affrettano a casa con le ceste piene di piccoli tonni; le ragazze, il capo coperto, sciamano vocianti dopo un giorno di scuola.

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