6 aprile 2014

Le poesie di Paolo Febbraro.


Paolo Malatesta (a parte, di Francesca)



«Aver bisogno, per parlare,

di un’altra poesia.

Dover piangere, nel vostro

purgatorio di corpi, il paradiso

d’un Libro sacro e scortese, nero

d’inchiostro. Nel mortorio

dei giorni stare sospesi, dannandosi

al vero infinito del desiato riso.

La mia bufera non è allegorica

e il quinto canto è una diceria.

Se avete un’anima, gettatela via».







Prova a dormire con chi ti solletica

od alle due di notte accende il sole:

così l’inverno mite con le piante

che dure in balcone tenevano i tempi

alla nostra riservatezza spoglia,

ai mesi di sospetto e controvoglia,

alla nostra retta dissipazione.

Guarda: reggono a stento

alla provocazione, tornano quasi

alla rissa. Alterco primaverile

che nella nera estate poi si fissa.







Le giovani donne soffrono perché i mariti

d’estate le amano, a sera, quando

più a lungo le guardano nude:

e loro, stanche e accese, li amano pure.

E sentono tendersi il ventre,

spossessarsi di loro, e danno il sangue

in perdite lunghe o in siringhe

sterili, per tradursi in numeri,

e si aprono a sonde che alle viscere

designano urgenze. E la prima

sera d’autunno, nell’istante

in cui il cielo cede e si sgrana

nero, si svegliano magre e arrochite

e il dolore attento le presidia

salendo dai fori che alle pance

giovani e bianche hanno tolto

vita e insidie. Sussurrano allora

mai più, ed è insieme

l’infanzia che hanno perso e non dato,

l’inverno estraneo che supereranno





Tempo reale



Mia moglie è dal suo parrucchiere

seduta allo specchio, sotto mani

guantate in lattice che intrecciano

e sciolgono la scena della corta

capigliatura. Come labili punte

di lancia i capelli inumiditi

le segnano una tempia o si alzano

in cresta prima che il pettine

li rimetta all’ordine e all’età.

Lei increspa la fronte, accentra

le pupille cerchiate di neon,

si scruta: «Oh se la fine –

pensa, e non è più distratta –

fosse il mutamento di un’ora,

lo spezzare calcolato di un capello

e non questo svanire presunto

inosservabile, questa lavatura

delicata e infame. Fosse uno squillo

solenne, una catastrofe precisa

cui ci si rechi come a scadere».

Poi s’alza, in piega asciutta,

paga silenziosa, esce in strada

ed il cammino la riporta rapida.

Sento la chiave nella porta,

il passo chiaro, appena disperso,

che stringe ormai la penna all’ultimo verso.




Non è meno infinita del mare

la roccia, con il suo non parlare

tetro, materia delusa, implosa,

nel suo sgretolarsi, una rosa.


Paolo Febbraro

http://www.italian-poetry.org/febbraro_paolo.html

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