30 ottobre 2014

Un partito alla sinistra del PD?


Una volta, prima della crisi che travolse la prima Repubblica, c'era il cosiddetto "grande Partito Comunista". 
Fondamentale per l'opposizione ai governi democristiani il PCI si trasformò, con il passar del tempo, in un partito che cercava di assomigliare ai partiti socialisti europei, anche se il legame con l'URSS rimase indissolubile fino al crollo definitivo dell'Unione Sovietica nel 1989.

Ogni volta che il PCI  "sterzava" a destra, per la "salvaguardia degli interessi nazionali", si produceva un partito alla sua sinistra, più "duro e puro", e poi un altro ancora, ancor più "comunista" e ancor più duro e puro, ancor più a sinistra.
Tutto fino all'estinzione, poi il "gioco" ricominciava.
Tutti questi partiti erano viziati da una più o meno marcata visione storicistica, spesso di stampo marxista leninista, a volte con un orientamento movimentista dettato dalle contingenze, o dalle mode e tendenze dell'epoca. 

Tutti questi partiti e partitini ereditavano dalla tradizione comunista la convinzione di possedere la "Verità" e di rappresentare una morale diversa da quella dei comitati affaristici di stampo democristiano e mafioso.
Quest'ultima convinzione è stata, almeno in parte, smentita dalle ricerche di Guido Crainz negli archivi storici dell'Istituto Gramsci, ricerche dalle quali appare che il tema dei finanziamenti occulti al Partito creava diffuse occasioni di costante corruzione. 

Il Partito Comunista ebbe, nonostante tutto, la capacità di svolgere un'opposizione utile al Paese, anche se l'alleanza atlantica di cui l'Italia ha sempre fatto parte costituiva un fattore di impedimento politico che poneva l'Italia in uno stato di stallo politico e di perpetua permanenza al governo della Democrazia Cristiana. 

Il crollo dell'URSS, Tangentopoli, l'ingresso di Berlusconi in politica, l'evoluzione politica del PCI a PDS e poi a PD sono fasi che, chi ha la mia età, ricorda perfettamente.

Anche in questi ultimi 20 anni, però, a dispetto di un mondo che è radicalmente cambiato il problema dell'identità della Sinistra è rimasto.
Il fallimento mondiale dei regimi comunisti, dittature incapaci di realizzare il benchè minimo cambiamento vagheggiato nella filosofia politica, nella teoria e nella propaganda, si è accompagnato all'incapacità della Sinistra di darsi una nuova identità liberale e democratica.

La vecchia visione storicistica, quella che Popper confutò in "Miseria dello storicismo", rimane come una radice alla quale non si vuole rinunciare, una sorta di confuso nostalgismo pseudo-rivoluzionario. 

Non credo che esista uno spazio politico, oggi, per tali obsolete logiche di rappresentanza politica.
Anche molto recentemente il magistrato Ingroia, e, qualche anno fa, i Bertinotti e i Diliberto, hanno dato dimostrazione di come sia fallimentare mantenere le forze dell'opposizione ancorate a ideologie superate dalla Storia e ampiamente fallite.

D'altro canto il PD di Renzi è diventato un "partito liquido" che tende a produrre politiche concordate al di fuori del Parlamento e fuori dal dialogo con il Paese reale; pertanto, difficilmente può garantire una autentica tenuta della democrazia nel nostro Paese.

Si tratta quindi di ritornare ai principi liberali e costituzionali del 1946, di ricomporre un'identità di nazione e un'identità democratica che, dal dopoguerra ad oggi, nessuna forza politica ha mai garantito, o anche solo tentato di attuare pienamente.

Non lo fecero i cattolici, non lo fecero i comunisti. 

Se si vuole salvaguardare la democrazia in Italia si deve creare una forza liberale, democratica, antifascista, capace di lottare per i diritti democratici, per la partecipazione politica alle scelte del Paese, per la ricostruzione di un Paese che ritrovi motivi fondanti, programmi, futuro.

Se si vuole un Paese di cui essere orgogliosi è necessario fare i conti con la storia e con il passato: 
non solo il passato di un fascismo che si tenta vergognosamente e scandalosamente di riabilitare, ma tutti i "passati": 
quelli del riciclo post seconda guerra mondiale dei fascisti nel PCI, quelli dei finanziamenti URSS al PCI da Stalin al 1989, quello delle connivenze del PCI  e suoi derivati più recenti con le tangentopoli dei tempi moderni.

Non si tratta quindi nè di superare i concetti di Destra e Sinistra, nè di rilanciare una Sinistra con tutto il suo vecchio apparato di slogan vecchi un secolo, ma di ripartire dal percorso ideale della nostra Repubblica nata dall'esperienza e dalla cultura della Resistenza e della libertà.

Non credo in un nuovo partitino che, con fondamenti ideologici assai incerti e discutibili, e pieno zeppo di ex del mondo vetero-comunista, possa nascere alla sinistra di Renzi.

L'alternativa al liberismo selvaggio, alla legislazione di emergenza, all'attacco costante ai diritti dei lavoratori, non passa per un ritorno a ideologie superate dalla storia e a vecchi modi di fare politica.

Infatti Renzi non ha successo perchè governa bene: Renzi ha successo perchè, come Berlusconi nel 1994, nel 2001 e nel 2008, non ha alternative credibili.

E' in questa patologia sistemica, tutta italiana, che si consuma il dramma del nostro amato Paese.


Il vuoto politico, di questa politica, accresce il continuo deteriorarsi della nostra democrazia.


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PAOLO GIUNTA LA SPADA


15 ottobre 2014

Roma, 16 ottobre 1943.


La mattina del 26 settembre 1943 Gennaro Cappa, Capo dell'Ufficio Razza della Questura di Roma, telefona a Dante Almansi, presidente dell'Unione delle Comunità Israelitiche Italiane, e all'avvocato Ugo Foà, presidente della Comunità Israelitica di Roma: alle 18.00 dovranno essere a Villa Volkonsky dove li aspetterà  il tenente colonnello Herbert Kappler, comandante delle truppe tedesche che hanno occupato Roma.

Due giorni prima, il 24 settembre, Kappler ha ricevuto un telegramma strettamente riservato dal capo della polizia tedesca, e ministro dell'Interno, Heinrich Luitpold Himmler. 

Il telegramma dice testualmente: 
“Tutti gli ebrei, senza distinzione di nazionalità, età, sesso e condizione, dovranno essere trasferiti in Germania ed ivi liquidati. Il successo dell’impresa dovrà essere assicurato mediante un'azione a sorpresa” 

Nonostante il telegramma, all'incontro del 26 settembre con Foà e Almansi,  Kappler dichiara : "... non sono le vostre vite, nè i vostri figli che vi prenderemo se adempirete alle nostre richieste. E' il vostro oro che vogliamo, per dare nuove armi al nostro esercito. Entro 36 ore dovete portarci almeno mezzo quintale d'oro puro. Se lo porterete non vi verrà fatto alcun male. In caso diverso 200 fra voi verranno presi e deportati in Germania alla frontiera russa, o altrimenti fatti fuori...”


Almansi e Foà tornano a casa preoccupati, radunano i rappresentanti della comunità ebraica, informano con apprensione le famiglie: "dobbiamo consegnare mezzo quintale d'oro in 36 ore; ci ha promesso che, così facendo, nessuno ci farà del male..."

Il Lungotevere Cenci che porta alla Sinagoga, luogo di raccolta dell'oro, si riempie presto di una lunga fila di persone in coda. 
Tutti i romani ebrei, ma anche tanti romani non ebrei, si mettono in fila per consegnare gli "ori di famiglia".   La paura di non riuscire a raggiungere il mezzo quintale entro le 36 ore è forte. Il Vaticano fa sapere al presidente della comunità ebraica che ove non fosse possibile raggiungere i 50 chili nel termine fissato  garantirebbe la quantità mancante,   ma "non è un dono, solo un prestito che la comunità  restituirà a tempo debito…” racconta l'avvocato Ugo Foà.

L'oro viene portato, come stabilito da Kappler, a Via Tasso 155, entro il termine stabilito. La pesa dell'oro, diretta dall'arrogante capitano Kurt Schutz, è lunghissima e snervante; sembra che l'oro, già pesato nella Sinagoga, non sia sufficiente e gli ebrei cominciano a provare paura per l'esito della loro missione. Ma alla fine l'oro c'è tutto, anzi è molto più del necessario.
Almansi e Foà tornano a casa, raccontano della missione compiuta e nel "ghetto" si diffonde una certa soddisfazione e tranquillità. 

Nei giorni seguenti i nazisti circondano più volte la Sinagoga e le biblioteche della comunità ebraica; se le chiavi non sono immediatamente disponibili aprono con la forza le porte, portano via tutte le opere d'arte e molti preziosi manoscritti antichi. Perquisiscono e sequestrano gli indirizzi di tutti gli ebrei nei diversi quartieri di Roma: nel "ghetto", a Monteverde, a Testaccio, a Trastevere, al Trieste-Salario, nel centro della città... 

Il 30 settembre, Capodanno del calendario ebraico, con i soldati nazisti ci sono due professori tedeschi, presunti orientalisti ed esperti di storia antica, che, nell'analizzare le antiche carte, mostrano meraviglia e ammirazione. Questi due personaggi, forse, oltre a catalogare i capolavori da requisire, avevano l'ordine  di fingere rispetto per la cultura ebraica al fine di non agitare troppo i presenti e sviare le preoccupazioni degli ebrei. 
In effetti gli ebrei si sentono tranquilli. 

Sono romani e abitano a Roma da secoli, si sentono italianissimi come gli italiani, e forse più di tanti italiani.  Moltissimi di loro sono stati fascisti fino alle leggi razziali del 1938.
Con le leggi del 17 novembre del 1938, promosse dal fascismo e firmate dal re d'Italia Vittorio Emanuele III, gli ebrei vengono licenziati da tutti gli impieghi pubblici. Nelle scuole vengono espulsi professori e studenti. Vengono limitate e gradualmente del tutto vietate le professioni libere, l'apertura dei negozi, l'impiego nelle aziende private.
Ma ora, nonostante tutto, nei 9.000 ebrei abitanti a Roma, prevale la fiducia.

E poi Kappler è stato chiaro: "nessuno di noi sarà toccato se riusciremo a consegnare almeno mezzo quintale d'oro. E' stato fatto!..." si dice la sera in ogni casa.
Prevale l'ottimismo, del resto perfino diversi fascisti, nella Roma del settembre 1943, mostrano un non totale allineamento con le disposizioni sulla razza e, inoltre, non tutti amano i tedeschi che si comportano come truppe d'occupazione arroganti anche con i "camerati" italiani.

Si fa anche affidamento sul carattere di Roma "città aperta", grazie alla presenza del Vaticano e della Chiesa cattolica.

Gli ebrei romani sono tranquilli.
Nessuno dà ascolto alle voci che girano, la sera del 15 ottobre, in alcune case del ghetto, voci riportate da una donna di servizio che parla di retate imminenti.
In realtà alle 23.00 del 15 ottobre vengono arrestati presso l'albergo Vittoria di Roma i coniugi Sterberg  Monteldi, ebrei in fuga da Trieste in possesso di passaporto svizzero e, a giudicare dai documenti in loro possesso, non ebrei; ma la notizia non trapela e non arriva alla comunità ebraica.

Alle 5.25 del mattino del giorno dopo, sabato 16 ottobre, nel ghetto quasi tutti dormono. 

Il proprietario del caffè del Portico d'Ottavia, che viene da Testaccio dove abita, ha visto parecchi tedeschi, ma non si è insospettito. Ha già accesso la macchina del caffè e sta aprendo.  
Qualcuno è uscito presto dal ghetto, è già andato a far la coda per prendere le sigarette.

Poi si sente il passo cadenzato dei militari che in pochi minuti diventano centinaia, poi gli ordini in tedesco, infine arrivano i camion. 

Il ghetto è circondato. 

Nessuno può uscire.  

370 soldati e 30 ufficiali, guidati dalle famigerate squadre speciali "Einsatzgruppen", fatte affluire dalla Polonia agli ordini del capitano delle SS Theo Dannecker, chiudono ogni accesso al ghetto. 

La prima a dare l'allarme è una ragazza, la nipote di Laurina S.: uscendo da casa in via della Reginella ha appena visto portar via un'intera famiglia con sei figli, tira dritto, ma prima di svicolare urla alla zia: "Zia, vai via, portano via tutti!..." 

Laurina capisce, non si fa troppe domande, scende in strada, ha una gamba ingessata per un incidente di qualche giorno prima, porta con sè tutte le sigarette che ha in casa. Le offre a due tedeschi, uno ha forse 25 anni, l'altro è sui 40, forse di origine austriaca o tirolese. 

Capiscono qualche parola di italiano. Laurina dice più volte "ospedale!", "ospedale!" mostrando affranta la gamba ingessata. I due militari accettano le sigarette e la fanno passare: se ne va. 
L'operazione è ancora agli inizi. 
Laurina si gira e urla alla finestra della sua vicina di casa: "Sterina! Sterina!". 
"Che c’è? Che strilli?", risponde la vicina dalla finestra. 
"Vattene, stanno a portà via tutti!" 
Sterina risponde "Vesto pupetto e scendo...", ma appena scende non ci sono più i soldati di origine austriaco-tirolese, ma una squadra di SS che fa salire lei e il pupo sul camion.

Il rastrellamento procede casa per casa. 

I nazisti temono una sollevazione popolare, hanno fresca la memoria di quello che hanno subito a Napoli 15 giorni prima, non si fidano delle reazioni degli italiani che assistono alla scena dai quartieri vicini, non vogliono intoppi nello svolgimento dell'operazione. 
Consegnano ad ogni famiglia un biglietto in tedesco e in italiano, rassicurano e raccomandano di portare un bagaglio con viveri per 8 o 9 giorni e... bicchieri... 
Si sparge la voce, che è anche una speranza: "che si  operi un temporaneo trasferimento in un luogo di lavoro!... Del resto, perchè chiederebbero di portare dei bicchieri? Perchè chiederebbero di chiudere la casa e prendere la chiave?"

Il biglietto:
1) Insieme con la vostra famiglia e con gli altri ebrei appartenenti alla vostra casa sarete trasferiti.
2) Bisogna portare con sè viveri per almeno 8 giorni, tessere annonarie, carta d'identità e bicchieri.
3) Si può portare via una valigetta con effetti e biancheria personali, coperte, eccetto danaro e gioielli.
4) Chiudere a chiave l'appartamento e prendere la chiave con sè.
5) Gli ammalati, anche casi gravissimi, non possono per nessun motivo rimanere indietro. Infermeria si trova nel campo.
6) Venti minuti dopo la presentazione di questo biglietto, la famiglia deve essere pronta per la partenza.

Nonostante le rassicurazioni, e le speranze, a chi non apre viene sfondata la porta, e molti vengono trascinati, spinti per le scale, colpiti con il calcio della pistola.
Il rastrellamento del ghetto va avanti fino alle ore 14.00. Dal ghetto  vengono portate via 1259 persone: 689 donne, 363 uomini e 207 bambini.
Il rastrellamento procede in altri quartieri di Roma, in particolare a Testaccio, a Monteverde, a Trastevere, al Trieste Salario. 
Vengono condotti sui camion altri mille ebrei circa.

In via Brescia 29 muore per lo spavento l'anziana Sofia Soria. 

In via Flavia 84 viene prelevato anche Beniamino Philipson, sulla sedia a rotelle di invalido, malato di una grave forma del morbo di Parkinson. 

In via Adalberto, nei pressi di piazza Bologna, viene portato via Ennio Lanternari, un bambino di 4 anni che è solo in casa, la nonna è scesa un attimo a comprare il latte.  Lo trascinano via terrorizzato e nell'atrio d'ingresso del palazzo trovano anche la nonna che torna: portano via tutti e due.

Racconta Giancarlo Spizzichino, Responsabile dell'Archivio Storico Ebraico:
"La maggioranza degli ebrei deportati quel 16 ottobre non abitava al Ghetto; io, per esempio, abitavo all'inizio di Via Dandolo assieme  ai miei genitori, mia sorella e i miei nonni paterni. Avevo poco più di 5 anni, ricevemmo una telefonata il 16 all’alba, un conoscente ci disse: scappate stanno prendendo tutti gli ebrei di Roma! Fino a quel momento non avevamo avuto alcun sentore, come tanti altri ebrei romani. La comunità non sospettava alcuna razzia, un po’ per i 50 kg d’oro consegnati a Kappler, un po’ perché ci sentivamo tutti gli “ebrei del Papa”, quelli che sarebbero stati protetti. Io era a letto con la febbre alta a causa di un’iniezione di antitetanica; mi misero una sciarpa, faceva molto freddo, e scappammo verso Piazza San Cosimato. A poche decine di metri dal portone, ci si parò davanti un soldato italiano che allargò le braccia e disse: “Non di qua”, ancora oggi non so come abbia potuto intuire che stessimo fuggendo, che fossimo ebrei. Ricordo vividamente la sua divisa e le fasce che i soldati mettono alle caviglie; se fossimo andati dritti ci avrebbero presero tutti. Deviammo quindi per Via Manara, mio nonno aveva un negozio di merceria e  una donna che si riforniva da lui, ci accolse a casa sua e ci nascose."


Anche Settimio Calò si salva. Uscito di casa presto, va a fare la coda per avere le sigarette, torna a casa molto tardi quando è tutto finito. La moglie, i suoi 10 figli, il più grande 21 anni, il più piccolo di soli 4 mesi, non ci sono più. Vorrebbe uccidersi, ma resiste alla tentazione perchè ha speranza di ritrovare la sua famiglia, almeno qualcuno della sua famiglia. Non sarà così. La famiglia di Settimio non torna da Auschwitz.

Giacomo Limentani è un bambino di 8 anni, non è in casa, fugge su un filobus. All'altezza del portico vede buttare dei bambini, dal primo piano, sui camion. Con la sorella va a nascondersi nell'ufficio del padre, ma sulla porta trovano un grande cartello con il nome  di tutti i componenti della sua famiglia. Apre la porta dell'ufficio col terrore di trovarci dentro le SS; restano in quell'ufficio per tre mesi, senza aprire le finestre, senza fare rumore, sempre a piedi scalzi. Poi sono ospitati da un amico cattolico, e infine trovano rifugio per 8 mesi in un convento senza mai uscire da una cella senza finestre.

Lia Levi, 11anni, rimane 9 mesi in un convento di suore.

Molti sfuggiti alla cattura vengono aiutati dai frati dell'ospedale "Fate bene fratelli" sull'isola Tiberina: vengono vestiti da malati, o da infermieri. 
Altri trovano rifugio nelle case dei romani, nelle chiese, nei collegi religiosi.

I "rastrellati" del 16 ottobre vengono rinchiusi nei locali del Collegio Militare, in Via della Lungara.

Nella prima notte di arresto,  Marcella Perugia, di anni 23, dà alla luce una bambina. Con Marcella ci sono anche i suoi due figli, uno ha 6 anni, l'altro 5. Il marito di Marcella, Cesare Di Veroli, non era in casa durante il rastrellamento. 
Il 18 ottobre 1943 tutti i reclusi al Collegio Militare vengono trasferiti su camion telati alla Stazione Tiburtina.

Alla stazione, sotto costante controllo militare, vengono fatti salire su 18 vagoni per trasporto merci o animali, le cui porte vengono piombate con la fiamma ossidrica, e le poche aperture chiuse con il filo spinato.

Alle 14.05 del 18 ottobre il treno parte per Auschwitz.  

I giornali italiani, dal 16 al 18 ottobre, non riportano alcuna notizia, nè del rastrellamento, nè dell'arresto, nè del trasferimento alla stazione Tiburtina, nè della presunta destinazione.

Non c'è alcuna protesta ufficiale della Chiesa cattolica.

Sul treno solo un giovane riesce a crearsi un piccolo varco nel filo spinato e si getta, non visto, dal treno in movimento: si ferisce, ma si salva. E' Lazzaro Sonnino.

A Padova, dove il treno fa l'ultima sosta in Italia, l'ispettrice della Croce rossa Lucia De Marchi scrive sul suo diario:
 "...alle ore 12, non preannunciato, sosta alla nostra stazione centrale un treno di internati ebrei proveniente da Roma. Dopo lunghe discussioni ci viene dato il permesso di soccorso. Alle 13.00 si aprono i vagoni chiusi da 28 ore! In ogni vagone stanno ammassate una cinquantina di persone, bambini, donne, vecchi, uomini giovani e maturi. Mai spettacolo più raccapricciante s'è offerto ai nostri occhi. E' la borghesia strappata alle case, senza bagaglio, senza assistenza, condannata alla promiscuità più offensiva, affamata e assetata. Ci sentiamo disarmate e insufficienti per tutti i loro bisogni, paralizzati da una pietà fremente di ribellione, da una specie di terrore che domina tutti, vittime, personale ferroviarie, spettatori, popolo... "


Sempre durante la fermata del treno a Padova, c'è un giovane radiotelegrafista: Walter Chillin. Sente il pianto e i lamenti che vengono dal treno. Prende la mela che si è portato al lavoro, è lui stesso che lo racconta, l'avvicina al filo spinato da cui esce una mano. Un soldato tedesco gliela strappa e se la mangia. Poi minaccia di far salire sul treno anche lui. 

Dall'interno di un vagone chiedono soccorso per una donna che sta per partorire. 
Italo Lazzarini, il capostazione, chiama un'ambulanza; l'ambulanza arriva, ma i tedeschi non consentono il trasporto in ospedale. 

Alle 23.00 del 22 ottobre, dopo 4 giorni sui carri merci piombati, il convoglio di 18 vagoni giunge ad Auschwitz. 

Il giorno dopo inizia lo sterminio degli ebrei romani.


Nessun bambino è tornato da Auschwitz.

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PAOLO GIUNTA LA SPADA 










9 ottobre 2014

Il calcio, il tifo e l'identità di nazione.

Diciamo come stanno le cose: il tifo calcistico non è il massimo dell'intelligenza. 
Ognuno vede le cose con un personalissimo punto di vista che quasi sempre è molto lontano dalla realtà.
Si dovrebbe virare verso la sportività.

Prendete me: sono l'unico romano che nutre simpatia per entrambe le squadre romane, così mi prendo le critiche di tutti gli altri, compresi i tifosi fanatici di Roma e Lazio.
Non si può criticare Totti, uomo che non mi ha mai convinto quanto a lealtà sportiva; ma non si può neanche tifare per la Roma in Champions League perchè i laziali amici e parenti ti guardano male.
Inoltre, e questo aggrava la situazione, mi piacciono le squadre di provincia, le piccole e deboli rappresentative di provincia e di paese, che adoro.
Non mi piacciono le squadre per le quali gli arbitri hanno timori reverenziali, quelle che, e devo dirlo purtroppo, come la Juve e il Milan raggiungono record di favori arbitrali che superano di gran lunga l'incerta e accettabile linea dell'errore...
Come sempre: spero di sbagliarmi...

E vorrei aggiungere: chi perde, come a Torino domenica scorsa, è come sempre l'immagine dell'Italia e di noi italiani.
Tutti noi...

7 ottobre 2014

Son tanto brava. Una poesia ogni sera.




Son tanto brava lungo il giorno.
Comprendo, accetto, non piango.
Quasi imparo ad aver orgoglio
quasi fossi un uomo.
Ma, al primo brivido di viola in cielo
ogni diurno sostegno dispare.
Tu mi sospiri lontano:

Sembrami d'aver fra le dita la
stanchezza di tutta la terra.
Non son più che sguardo,
sguardo sperduto, e vene.

Sibilla Aleramo